Fragilità generative
- Stefania Ludovici
- 8 set 2022
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 25 ott 2022
Cosa accade nelle nostre famiglie, nelle nostre case da un po’ di tempo a questa parte?

C’è tutto un grande dibattito intorno all’aumentata fragilità dei nostri figli come conseguenza della pandemia mondiale e dell’isolamento sociale dato dalle troppe ore di DAD. Lo conferma uno studio dell’Università di Copenaghen, analizzando i risultati di sette ricerche su oltre 200 mila persone in Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Gran Bretagna.
È vero, è sotto gli occhi di tutti: la pandemia ha comportato rinunce e restrizioni sempre più difficili da gestire, ed è altrettanto evidente che l’assenza della scuola, con i suoi ripetuti start and stop, non ha penalizzato solo l’apprendimento generale ma ha comportato soprattutto una perdita secca di occasioni, esperienze, socialità, in una parola, di tutto ciò che è Vita, soprattutto in adolescenza.
Tutti i dati clinici ci dicono che sono di molto aumentati tra i giovani gli atti di autolesionismo, la violenza, i disturbi del comportamento alimentare... solo per citarne alcuni.
Eppure fermarsi all’evidenza di questi dati mi pare una grossa semplificazione del problema, perché in fondo la pandemia ha semmai contribuito ad esacerbare dei disagi che erano già presenti, perché come scrive Bateson “Dal nulla non nasce nulla”. Nel caso di una tendenza depressiva, per esempio, ci sono stati forti aggravamenti, così come per quei ragazzi con difficoltà nel controllo, si sono registrate esplosioni di rabbia o ripetuti atti di autolesionismo.
Io trovo che il crescente disagio psichico cui stiamo assistendo ha a che fare con una grave perdita che è avvenuta ben prima del Covid-19: la perdita dell’attesa. Non siamo più in grado di aspettare, di stare, di sopportare. La paura più grande che affligge tutti noi è la paura di soffrire.
Patire ci è insopportabile.

Fuggiamo dalla sofferenza perché crediamo di non riuscire a contenerla, superarla.
In un mondo in cui tutto si consuma in fretta e velocemente, l’idea di stare con la nostra sofferenza per un tempo dato, è impensabile.
Ecco perché uno dei comportamenti più diffusi in adolescenza, soprattutto tra le ragazze, è il cutting: l’atto di tagliarsi la pelle con un oggetto affilato, senza avere l’intenzione di uccidersi.
In questo caso emerge il bisogno di rendere visibile la sofferenza, spostandola sul corpo, che diventa il megafono del dolore muto degli adolescenti, come se il dolore fisico fosse più facile da accettare del dolore mentale.
Quanta parte di responsabilità abbiamo noi adulti con questa perdita dell’attesa? Quanto siamo capaci noi grandi di accettare gli inciampi, i patimenti, i dolori della crescita dei nostri figli?
Ne siamo capaci? O la nostra tendenza è quella di allontanare quanto più possibile questa sofferenza, affannandoci a dare istruzioni su come superarla, vincerla, quando forse, si dovrebbe imparare un po’ a sopportarla?
Forse noi adulti dovremmo imparare ad accettare il fatto che, se vogliamo aiutare i nostri figli a costruire la loro identità su basi solide e robuste, non dobbiamo eliminare qualsiasi ostacolo dalla loro strada.
I fallimenti e le cadute fanno parte integrante del viaggio, che passa anche attraverso la sperimentazione di sentimenti di infelicità. Per stare bene, non bisogna stare sempre bene!
Bisogna essere pronti a parlarne con i nostri figli, con tutto ciò che emotivamente comporta, senza essere né interventisti, né passivi, ma solo presenti, rispettando la libertà e il cammino che devono compiere da soli, verso il mondo adulto.
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